il paradigma dello sviluppo e il cibo etnico

Negli anni sessanta, mentre la decolonizzazione offriva scenari di gioiosa distruzione,  la teoria della modernizzazione, alla base del protendersi dei tentacoli del capitalismo sotto le spoglie di un colonialismo ancor più perverso, inizia a vedersi minare le proprie radici.

Gli intellettuali, fin troppo spesso pronti ad assecondare il paradigma universalizzante di uno sviluppo unilineare, iniziano a discordare da questa visione. Sono gli anni in cui alcuni storici e sociologi iniziano a sviluppare la teoria della dipendenza e la teoria del sistema mondo, i cui concetti, seppur non permettendo una rimessa in discussione radicale del paradigma stesso dello sviluppo (come elemento inevitabile e ineludibile che l’occidente si deve di esportare altrove), forniscono una chiara immagine delle relazioni asimmetriche dell’Occidente dominante.

La teoria di Gunder Frank come quella di Immanuel Wallerstein, elaborate a qualche anno di distanza, evidenziano chiaramente come, se c’è una parola per definire gli stati sviluppati, questa non sia altro che “ladri”. Non che abbia nulla in contrario a chi sottrae proprietà altrui, ma quando questo avviene tramite un potere che non è quello legittimo della riappropriazione o della violenza sociale, quando addirittura si costruisce l’immagine e lo statuto di “sottosviluppato” per indicare i risultati del proprio latrocinio, perseverando gli abusi con delle politiche nascoste dal buonismo di facciata, la resistenza è il minimo che si possa auspicare.

la bellezza intrinseca di un paesaggio sviluppato

Detto questo, tra gli elementi concettuali introdotti contribuire allo smantellamento del discorso sviluppista del capitale, gli studiosi misero in avanti come bastasse gettare un rapido sguardo alla storia di quelle che allora venivano definiti stati del terzo mondo in via di sviluppo, per rendersi conto che dietro a paesi devastati da miseria e sottosviluppo (come se la prosperità  economica corrispondesse effettivamente al benessere) spesso si celavano antiche potenze tecnologicamente sviluppate quali l’Impero Cinese e l’India dei Moghul.  Risultava chiaro che, quando le potenze colonialiste parlavano di società “tradizionali” pervase da ethos incompatibili con la modernità sviluppista, in realtà non tenevano conto del fatto che la situazione di arretratezza fosse stata creata direttamente dal capitalismo stesso. È il capitalismo che ha sviluppato il sottosviluppo, si potrebbe dire parafrasando Gunder Frank.

E del resto, oggi, a quasi 50 anni di distanza, appare chiaro come posizioni alla E. Banfield o alla L. E. Harrison, per i quali gli “arretrati” sono caratterizzati da un ethos che impedisce loro di uscire dal fango del passato (senza sognarsi di pensare che -ammesso e non concesso che si possa parlare di uno “spirito del popolo”-,  usando le parole di P. Clastres nell’introduzione ad un saggio di M. Sahlins,  se non massimizzano non è perché non ne sono capaci, ma perché non ne hanno voglia) non siano nient’altro che speculazioni etnocentriche e, forse peggio, il discorso di un imperialismo strisciante. Oggi, India e Cina appaiono più che mai paesi (fin troppo) sviluppati, tanto da poter permettersi di pagare parte dei debiti contratti dagli stati europei. Non che, per l’appunto, lo sviluppo abbia portato ad un’equa distribuzione delle ricchezze, a una democratizzazione reale (ammesso che possa esistere), al diminuire delle disparità sociali; al contrario, l’aumentare di sfruttamento e abusi è andato di pari passo con l’incremento del PIL.

Il ribaltarsi dello squilibrato sistema-mondo non ha però fatto venir meno quella cospicua congerie di stereotipi riguardo all’alterità costruita dell’Oriente, creata dall’Occidente con il poi non tanto occultato obiettivo di annientare il diverso  e colonizzarlo rivendicandone una differenza ontologica (Edward Said saprà spiegarvelo meglio di me).

E nella costruzione del Diverso, dell’Altro come nemico e spauracchio, cosa c’è di meglio che addensare tutte le differenze delimitandone dei caratteri semplici e precisi, dei tratti ricorrenti e irrigiditi, delle gabbie di aggettivi in cui si è intrappolati?

Senza tirar fuori la visione dei Romantici tedeschi e il loro desiderio di affibbiare ad ogni popolo uno spirito che lo contraddistingue, si può tirare in ballo un aggettivo che, ancora oggi, dilaga imperterrito nel nostro immaginario sociale.

Fin da bambini, ci insegnano a prendere delle forme e a categorizzarle mettendole nel foro giusto, cosicché, quando saremo grandi, ci basterà vedere il colore della pelle e il taglio degli occhi per inserire l’individuo nella definizione corretta. Incasellarlo, presupponendo l’esistenza di una cultura uniforme e omogenea che lo unisca agli altri dotati degli stessi caratteri.

Ma qual era l’aggettivo che usiamo per tagliare confini tra le culture e le persone? Etnico.

Etnico è un aggettivo sulla cui etimologia non desidero soffermarmi, ma di cui tuttavia vorrei dire qualcosa. Non mi interessa sapere che ethnosin greco volesse dire popolo, quello che mi preme è invece ricordare due studiosi che ne hanno da dire a proposito. J.-L. Amselle e F. Barth non sono spesso accostati, eppure il secondo ha posto i presupposti per distruggere la

la razionalità della categorizzazione occidentale applicata all'essere umano by cesare lombr(ic)oso

visione reificante  di etnia come unità discreta che sarà poi anche attaccata dal primo. A diversi anni di distanza, Barth ci dice che l’etnia non esiste, ma è una categoria, la cui creazione e il cui mantenimento dipendono dal marcarne i confini. Il gruppo etnico è definito unicamente sulla base dei criteri che gli interessati elaborano per distinguersi dagli altri (nessuna eterodefinizione può essere accettata). Amselle prosegue altrove: non solo l’etnia non esiste, ma la sua costruzione di deve all’amministrazione coloniale, la quale ha avuto tutto l’interesse a procedere secondo il vecchio detto romano del divide et impera, tracciando linee di demarcazione nette e rigide, in modo che gli individui appartenessero ad un solo gruppo nel quale riconoscersi e con il quale battersi per contrastare la propria differenza con gli altri.

Ma che ci azzecca tutta sta pappardella sul colonialismo, sviluppo e gruppi etnici in un blog che, alla fin fine, è pur sempre un blog di cucina?

C’entra, c’entra, eccome. La cucina, senza fare dell’antropologia gastronomica, è il punto di incontro tra naturale e culturale, dove bisogni fisiologici vengono reinterpretati alla luce di significati culturali e possibilità ecologiche. E dalla voglia di mangiare, si hanno migliaia di forme di cibo. Anche se effettivamente si può considerare l’attenzione che portiamo per il cibo come qualcosa di specifico alla cultura occidentale moderna e non universalmente generalizzabile,  gli alimenti prendono i più svariati gusti e seguono una pletora di preparazioni differenti. E immaginate un po’ come si chiamano le cucine degli altri, le cucine che vengono da lontano?

E sì, mi sa tanto che non è poi così difficile da immaginare: si tratta di cucine…”etniche”!

Insomma, tutto questo  perché volevo inserire una ricetta dai sentori orientali (pur essendo una pura rielaborazione personale di stereotipi ancorati all’immaginario collettivo).

Maiale caramellato

ne’ vegan, ne’ vegetariana (mi chiedo però se non possa funzionare con dei soja chuncks, ben preparati prima in olio, salsa di soja e erbe varie…), ne’ halal (possibile variante), senza glutine

utensili:

  • pentola
  • pentolina
  • pestello (opzionale)
  • ciotola grande

ingredienti:

  • maiale in pezzi (il taglio dipende dalle vostre scelte economiche), può anche sostituirsi con tacchino o pollo a seconda di cosa si trova
  • zucchero
  • arachidi (da aperitivo)
  • cipolla o scalogno
  • aglio
  • zenzero (io non ce l’avevo, ma penso che ci stesse proprio bene)
  • peperoncino e spezie varie (potendo scegliere: chiodi di garofano, 5 bacche coriandolo, pepe)
  • olio di girasole o mais o colza o misto
  • salsa di soja
  • vermicelli di soja per accompagnare (si trovano dai cinesi a veramente poco)

realizzazione:

  • pestare in un pestello o con ingegni vari lo zenzero, l’aglio, uno scalogno (o mezza cipolla), il peperoncino e le spezie fino ad ottenere una “pasta” quasi omogenea e dall’odore appetitoso
  • mettere nella ciotola il maiale e le spezie e lasciare marinare quanto più possibile (senza esagerare). l’ideale sarebbe un oretta, il massimi cinque e il minimo un quarto d’ora.
  • nel frattempo, versate un po’ di zucchero in un pentolino sul gas fuoco medio. SENZA girarlo, aspettate che si sciolga. A quel punto mescolate per uniformare il colore. Aspettate che si caramellizzi bene e aggiungete dell’acqua con un po’ di salsa di soja. Lasciare sobbollire delicatamente.
  • far scaldare l’olio nella padella e far rosolare per bene la carne e le arachidi, mettere quanto resta della marinata nel caramello.
  • Quando la carne (o i soja chuncks) sono ben rosolati, aggiungere la salsa al caramello (che deve restare comunque un po’ liquida per permettere alla carne di cuocerci un po’ dentro). Mettete un coperchio e lasciate cuocere per 20 min circa.
  • Fate bollire l’acqua per i vermicelli di soja se li preparate.
  • scoperchiate e assaggiate. Se necessario, aggiungete sale e/o salsa di soja o zucchero. lasciate evaporare l’acqua perché la carne si caramellizzi per bene.
  • È pronto!

 

 

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