un poor-food blog condito con un filo d’odio su letto di astio di classe

uscendo dal lavoro, essì ogni tanto capita pure di lavorare, sento un tanfo disgustoso. un sentore nauseabondo di ospedale e cibo per cani mi infetta le narici e mica capisco subito la provenienza di tale ammorbante odore. poi realizzo: arriva da un’ambulanza della croce rossa parcheggiata con i lampeggianti accesi in un angolo dello spiazzo. non sono le piaghe non curate degli internati nei cie a puzzare, non è il ruolo di complice nella gestione delle espulsioni ad appestare l’aria e non è nemmeno, seppur ci si avvicini, il cibo avvelenato di psicofarmaci che i crocerossini amministrano quotidianamente e con tanto amore ai clandestini.

E’ il cibo, se così si può chiamare, che, con altrettanta tenerezza fatta di gesti secchi e affrettati, distribuiscono in confortanti piatti di plastica ai poveri. sono buoni e gentili i crocerossini che pensano sia più dignitoso andare a elemosinare una brodaglia puzzolente piuttosto che cercarsela da soli, magari in un cassonetto (dove, neppure nelle giornate d’estate, i resti delle verdure marce cuociute nella plastica spessa eguagliano in squallore e nauseabondezza il pasto offerto).

E non si tratta di solidarietà, di voglia esigenza di condividere o anche fosse di ridistribuzione. E’ un’odiosa minestra per non far saltare le persone dalla finestra, perchè tutti, restando al proprio posto, possano mangiare (nutrirsi).

Ma, il cibo, fisiologicamente necessario alla sopravvivenza, sembra assumere sfaccettature così diverse a seconda del posto che dovremmo occupare. Perchè il cibo non è nient’altro che un prodotto, fabbricato industrialmente perchè si creino degli impieghi come qualsiasi altra merce. E perchè non ne si ha diritto se non si può comprarlo. Bio, bio, bio sembrano pigolare i ricchi seduti ai loro tavoli di cristallo, mentre il resto del pollaio, tra lo sterco e la calce, viene innaffiato con abbondanti dosi di glutammato. Ma, personalmente (perché questo è un blog personale, ma mica ci sono solo io!) , mi sono un po’ rott@ il cazzo di mangiare la merda imbellettata e (e poi neanche tanto) profumata a cui avrei diritto visto il mio reddito.

Non per questo mi diletto leggendo la marea di foodbloggers che ha invaso la rete. brave mammine e spose illibate che pensano di allettare la propria famigliuola mulino bianco con tenere dolcezze mentre fuori infuria la guerra. Ricette delicate con prodotti esoticamente costosi e introvabili, la cui unica bontà sta nella rarità dell’ingrediente. Papille che gioiscono nel dimostrare la propria superiorità censuaria con manicaretti improducibili senza il devoto senso del dovere coniugale e ingegnosi robot che si alimentano di un’energia elettrica sporca di sangue (quando si tratta di petrolio eni, ad esempio) e autorità statale (con l’imposizione forzata delle nocività nucleari).

Contro tutto questo (stato e autorità, sfruttamento, famiglia), questo blog culinario vorrebbe, per iniziare, sfamare la nostra sete mangiando i ricchi. porci alla borghezio e lepen che da soli sfamerebbero i poverelli soccorsi dalla croce rossa con succulente carni di maiale allo spiedo per un inverno intero. ma la lista di mangiabili non si esaurisce a qualche xenofobo razzista, si dilata fino ad integrare i ricchi che, per ora, mangiano sulle nostre teste e bevono, ignari, lo champagne che noi raccogliamo. Ricette per mangiare i ricchi ce ne sono a bizzeffe (è possibile adattarli a diverse salse), ma, nonostante il titolo, non è l’obiettivo di questo povero piccolo blog di proporle. Rapimenti di padroni, sabotaggi, furti, rivolta, autorganizzazione sono solo alcuni degli ingredienti necessari, ma non ne starò a discutere qui. Queste pagine virtualmente inconcludenti vogliono semplicemente ricordare che le papille gustative non sono un gingillo di classe. Che ce le abbiamo tutti e goderne può essere un’infima, ma estremamente soddisfacente, rivendicazione. Alla facciazza dei riccastri stressati che ci pensano sbavare su un piatto di omogeneizzato della croce rossa, preferisco immaginare una cucina di resistenze. Non c’è niente di rivoluzionario nel mangiar bene e con poco, non è un obiettivo, non è un fine, ma è un bel mezzo per nutrirsi per fare la rivoluzione e organizzare un bel pranzo di gala con gli sfruttatori nelle pentole.

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